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Enrico Carmassi: un itinerario artistico

 

Enrico Carmassi: un itinerario artistico

 di Anna Zinelli

1922-1942: La Spezia

Considerare la produzione di Enrico Carmassi tra il 1922, anno in cui apre il suo primo studio a La Spezia, e il 1943, quando quello stesso studio è distrutto dai bombardamenti, non può chiaramente prescindere da una corretta contestualizzazione storica.

Come altri artisti Carmassi è stato oggetto di una sostanziale rimozione, effetto imputabile anche alla damnatio memoriae che ha segnato quelle ricerche considerate come “colluse” con l’ideologia della dittatura.

Andando oltre a letture che hanno tentato una sorta di “defascistizzazione” della produzione artistica di questi anni o che hanno impostato una contrapposizione ideologica spesso falsata (ad esempio tra architettura razionalista e classicista) diventa necessario considerare in una corretta prospettiva storica come il regime abbia agito sulla sfera culturale e, al contempo, come le spinte per “un’arte di stato” provenissero da movimenti spesso contrastanti: il futurismo, Novecento, il razionalismo, gli stessi astrattisti.

Rileggere oggi l’attività spezzina di Carmassi non può dunque prescindere da un’analisi del suo operato anche in relazione a quello che è stato il suo rapporto con la cultura ufficiale, soprattutto in considerazione della produzione monumentale, che in questi anni non poteva che essere dettata da commissioni pubbliche, ma anche in generale per quanto concerne la scultura che costituiva uno dei veicoli principali della propaganda.

È utile ricordare che Carmassi, nato a La Spezia nel 1897, si era formato con lo scultore locale Angiolo del Santo, allievo di Leonardo Bistolfi, e successivamente all’accademia di Carrara, non ultimando tuttavia gli studi a causa dello scoppio della prima guerra mondiale. Nel 1922 apriva il proprio studio in città e realizzando negli anni successivi numerose opere monumentali in parte tutt’ora presenti, in parte andate distrutte durante la seconda guerra mondiale (per quanto concerne la prima produzione di Carmassi si rimanda al dettagliato contributo fornito da Mara Borzone).

Un’importante testimonianza di questa produzione è conservata nell’archivio fotografico della Fondazione Socin, in cui ritroviamo documentazione relativa allo studio dell’artista, ed anche di opere oggi andate perdute.

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Lo studio dell’artista (seconda metà anni ‘30). Fondo fotografico della Fondazione Socin

 La produzione monumentale di questi anni, che resterà una costante per tutta la vicenda artistica dello scultore, si iscrive all’interno di un preciso processo di modificazione del linguaggio che segna la cultura plastica italiana del periodo.

L’immediato dopoguerra aveva visto infatti una proliferazione di opere dedicate ai caduti e di sacrari che avevano radicalmente mutato il paesaggio urbano italiano[1], definendo un linguaggio comune, in parte ricollegandosi al carattere celebrativo post-risorgimentale[2]. L’avvento del fascismo aveva segnato l’incremento di questa tendenza, a partire da un recupero del mito della Grande Guerra di cui il regime di proponeva come erede, istituendo una sorta di analogia tra “martiri della guerra” e “martiri del fascismo”.

Se la commemorazione dei caduti resterà una costante per il regime, un cambiamento di questa tendenza si è posto dalla fine degli anni ’20, in parte per l’inserimento di uno sbarramento legislativo atto ad arginare le nuove pose in opera monumentali, ma soprattutto per il passaggio - con l’inasprirsi delle politiche repressive del regime che si riflettevano anche sulla sfera culturale e sulle commissioni pubbliche - ad un’”architettura monumentale” diffusa che si legava in primo luogo ai luoghi adibiti ai cerimoniali della dittatura, come ad esempio gli stadi o le architetture appositamente edificate come le “case del Balilla” . Al contempo tuttavia erano anche anni in cui si verificava un rinnovamento della retorica monumentale, con un aggiornamento del linguaggio architettonico che coniugava al recupero del classicismo - la “romanità” con tutte le valenze di propaganda che implicava - un interesse per il razionalismo europeo.

Anche la produzione di Carmassi riflette questo processo e queste compresenze di differenti indirizzi, come risulta se si considerano l’opera del 1925, andata distrutta del 1943 e qua proposta in una cartolina del 1930, Monumento a Naziario Sauro; le statue realizzate per l’ingresso dello stadio Picco dedicate al pugile Alfredo Oldoini, che si possono mettere in relazione con le sculture del pugile di Franco Messina; le collaborazioni di questi stessi anni con architetti come Ettore Oliva e soprattutto con Manlio Costa, vicini alle istanze razionaliste e al futurismo.

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Monumento a Nazario Sauro, 1925 ca. (distrutto nel 1943)

Un caso di studio particolarmente significativo è la collaborazione con l’architetto Costa alla Casa Balilla, realizzata a La Spezia tra il 1934 e il 1936, per cui Carmassi realizza statue in bronzo e pannelli decorativi. Lo studio per la statua “Duce” , conservato presso la Wolfsonian-Florida International University , in cui il volto del dittatore appare del tutto stilizzato, ridotto ai caratteri immediatamente riconoscibili, mostra un chiaro recupero della plastica “sintetica” futurista e in particolare del celebre Dux di Thayaht, realizzata dal 1929 in diversi esemplari e con materiali differenti.

Ancora progettata da Costa, in collaborazione con Giovanni Dazzo, era la Casa d’Arte del 1932, sede del Premio di Pittura del Golfo, fondato da Marinetti, Righetti, Prampolini e Fillia e con la collaborazione dello stesso Carmassi (ripreso poi nel dopoguerra come Premio di pittura del Golfo della Spezia), che portava alla celebrazione dell’aeropittura con la premiazione di Dottori.

Per questa sede Carmassi aveva progettato una delle sue opere più note, la Donna Elica, attestata anche con i titoli Donnelica/ L’idolo della velocità, titolo che poneva l’opera in diretto collegamento con la pittura murale realizzata da Fillia all’ingresso dell’edificio L’idolo del cielo. Esposta l’anno successivo anche alla Biennale di Venezia, dell’opera si conserva presso la Fondazione una versione in gesso. Difficile identificare il materiale dell’originale, ma non è da escludere che si trattasse anch’esso di gesso, rivestito di una patina volta a conferirle un effetto “metallizzato” come risulta evidente da alcune fotografie. Di particolare importanza è stata inoltre la segnalazione di una maquette dell’opera, di proprietà privata, in alluminio, uno dei materiali “moderni” esaltati dal futurismo.

Carmassi prende dunque parte attiva a quella “piccola rivoluzione artistica ed editoriale”[3] che, nell’arco di pochi anni, “catapultò La Spezia dentro i principali focolai del futurismo”; come messo in luce nel fondamentale contributo di Marzia Ratti nei primi anni ’30 La Spezia diventa infatti, attraverso una costante attività espositiva, giornalistica, conferenziera promossa soprattutto da Fillia e Marinetti, un luogo privilegiato per quell’operazione estetica e strategica volta ad accreditare il futurismo come linguaggio artistico privilegiato della cosiddetta rivoluzione fascista. Il tentativo di legittimazione del movimento marinettiano nella politica di regime si legava chiaramente anche alle opportunità legate a commissioni pubbliche

Ricondotto da Marinetti, assieme a Thayaht e Regina, alla fase “simbolica” dell’aeropittura, con la Donna Elica Carmassi dimostra di collocarsi in una linea di ricerca che se da una parte lo avvicina alle coeve ricerche di artisti spezzini come di Bosso (si veda il Paracadutista in caduta del 1934) mostra al contempo un netto scarto rispetto alla celebrazione dei “nuovi eroi dell’aria”, esaltati anche in chiaro senso nazionalistico[4], nella proposizione di una figura femminile. Nella sua sintesi tra elemento nautico (o aereonautico) e antropomorfo, la Donna Elica sembra riecheggiare l’incipit del manifesto della letteratura futurista del 1912 di Marinetti (Ecco cosa mi disse l’elica turbinante…), così come il nome scelto da Balla per la figlia.

La scelta di rappresentare soggetti femminili è un altro degli elementi identificabili come costanti nella poetica di Carmassi, soprattutto del dopoguerra, che vedrà in particolare nei ritratti della moglie Tullia Socin uno dei suoi soggetti privilegiati. I due artisti si conoscono proprio in occasione della prima edizione del premio del Golfo, a cui la pittrice bolzanina prene parte, e si sposano del 1943.

Accanto alla produzione futurista, minoritaria stando alle opere superstiti ma anche alla documentazione di quelle andate perdute, lo scultore porta avanti una produzione plastica più “tradizionale” anche in questo caso rapportabile ad altri esponenti della scena spezzina, ed in particolare alla figura di Augusto Magli, scultore che, formatosi come Carmassi con Del Santo, aveva collaborato con Franco Oliva in diversi edifici pubblici spezzini.

In questi anni Carmassi prende parte ad importanti occasioni espositive, come la III Quadriennale di Roma del 1939, in cui presenta l’opera oggi perduta Il ciclista e Eva Pentita del 1936, scultura in gesso patinato andata irrimediabilmente danneggiata durante la guerra e oggetto di parziali reintegrazioni da parte dello stesso artista come messo in luce da un recente restauro condotto dalla Fondazione. Un possibile riferimento è identificabile nell’opera di Marino Marini Frammento, esposta alla prima Quadriennale romana.

Il soggetto, che tornerà nel dopoguerra, non era nuovo all’artista, come attestato dal gruppo scultoreo del 1934, ora perduto, esposto alla I Mostra Provinciale del Sindacato Fascista di Belle Arti e di La Spezia e pubblicato su “Emporium”.

1943-1975: Torino e Castellamonte

Centro di fondamentale importanza militare e industriale, La Spezia è oggetto di numerosi attacchi da parte degli alleati, e in particolare nel 1943 è ripetutamente bombardata e quasi rasa al suolo. Anche lo studio di Carmassi ne esce distrutto e inoltre, nei suoi scritti, egli riferisce di una rappresaglia da parte di soldati tedeschi che avrebbero danneggiato le sue opere. Questi eventi, oltre a determinare la perdita di buona parte della produzione prebellica dell’artista, lo conducono alla scelta di lasciare la città ligure.

Nel 1943 sposa Tullia Socin e la coppia decide di trasferirsi l’anno successivo nel Canavese, a Castellamonte - centro di produzione di ceramica - dove Carmassi è nominato direttore dell’Istituto d’Arte Faccio.

È in questi anni che l’artista si accosta alla ceramica, come attestato dall’opera del 1944 dal titolo ignoto, in cui risulta evidente la riflessione sulla plastica martiniana nella semplificazione dei tratti del volto che sembra richiamare la celebre opera Il poeta Checov del 1921-22, anch’esso in terracotta.

La riflessione su Martini, lungi dall’essere un semplice recupero formale va a collocarsi in un momento di ripensamento dettato dalla crisi del linguaggio plastico e delle sue funzioni che si ricollega ad un dibattito fondamentale in questi anni, e che nel caso di Martini arriverà fino alla teorizzazione della scultura come “lingua morta” nel 1945.[5]

Anche Carmassi intraprende quindi un processo di profondo rinnovamento, in una costante tensione tra tendenze accademiche e stilizzazione formale, che vede l’elemento umano restare sempre la componente centrale. Il confronto serrato con le ricerche coeve emerge anche dal disegno senza titolo, riconducibile a questo periodo, in cui risulta chiaro il confronto con Marino Marini nell’adozione del suo motivo tipico del cavaliere, ma anche nella resa grafica.

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 Enrico Carmassi, s.t., carboncino, anni 50

Negli anni piemontesi l’attività espositiva dell’artista - particolarmente assorbito dalla didattica - si fa più diradata rispetto alla stagione prebellica, ma non mancano ancora importanti occasioni come la partecipazione alla Quadriennale del 1959 o la presenza costante alle mostre promosse dalla Promotrice del Parco del Valentino.

La tendenza a una riduzione sempre più estrema della figura umana è particolarmente evidente in Torso femminile del 1957, realizzato a quattro mani con la moglie, coniugando una resa formale che sembra rimandare alle sperimentazioni degli anni ’30 di Arp con un trattamento superficiale graffito e stratificato che è identificabile come una cifra stilistica ricorrente.

Non mancano anche in questa fase scelte stilistiche differenti, soprattutto per quanto concerne i concorsi, in parte riconducibili probabilmente ad un tentativo di assecondare i gusti della committenza. Un esempio è il bozzetto presentato al concorso indetto dall’Istituto Nastro Azzurro (associazione dei decorati al valore militare) indetto nel 1958 per un monumento dedicato ai sommergibilisti caduti da erigersi a La Spezia. A seguito di un complessissimo restauro che ha restituito la piena leggibilità all’opera, sono emerse informazioni particolarmente utili, quali dei segni a matita che indicano il mare e che quindi attestano come la sua realizzazione fosse pensata sulla costa, sviluppando quindi la struttura come una sorta di pontile. Anche in opere dal carattere più tradizionale come questa sono identificabili dei rimandi diversificati; in questo caso ad esempio le figure del sommergibile e dei marinai sembrano rimandare a delle scelte compositive tipiche della grafica sovietica e ancora del secondo futurismo (si veda ad esempio la tavola di Depero La Spezia contenuta tra le 96 tavole a colori per  “Dopolavori aziendali in Italia" delle collezioni del MART).

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Enrico Carmassi, Bozzetto per monumento ai sommergibilsti caduti, 1958 ca., gesso. Museo Civico di Bolzano, Sala Stella Marina.

Per comprendere la produzione di Carmassi a partire dalla fine degli anni ’50 non si può non considerare il ruolo della moglie, che non si limita ad essere il soggetto privilegiato di molte opere o la “musa ispiratrice”, ma ha una parte attiva di coautrice di molte sculture e rappresenta un confronto costante. Se la prima produzione di Tullia Socin, che aveva studiato a Venezia con Virgilio Guidi, era essenzialmente improntata sulle tematiche del paesaggio e del ritratto in parte di sapore novecentista, a partire da questi anni dimostra un approccio di matrice neocubista prima, e poi orientano verso le ricerche informali in cui ha un ruolo centrale il lavoro sul colore. La complementarietà dei due artisti si riflette dunque nelle opere in cui il virtuosismo di Carmassi nella resa plastica si incontra con il cromatismo acceso delle patine e degli smalti della moglie, approdando fino ad opere come Alta figura Femminile di chiara derivazione informale, per certi versi accomunabile alle coeve sperimentazioni sulla ceramica di Leoncillo.

Negli anni ’60 i temi ricorrenti della produzione carmassiana sono i soggetti sacri e la figura del “prigioniero”, variamente declinato in opere che propongono gruppi antropomorfi acefali fortemente stilizzati e forme caratterizzate da una maggiore frontalità in cui può aver agito la lezione di Consagra. Non viene meno il riferimento a Martini, come attestato dall’opera Femminilità del 1969 che si pone come una citazione precisa de La disperata del 1929 (opera di Martini che era stata esposta a Torino proprio nello stesso 1969 in occasione della monografica dell’artista veneto alla Galleria Narciso).

Tra le cifre stilistiche di questi anni troviamo infine il tema del “reticolo”, una struttura tendente all’astrazione ma che richiama chiaramente anche una gabbia che intrappola le figure umane e che sembra rimandare a quanto proposto da Mirko Basaldella nei cancelli delle Fosse Ardeatine.

Per quanto sia solo accennato, questo elemento è presente, come filo spinato, anche in una delle ultime opere pubbliche di Carmassi, Il Monumento ai caduti di Rivarolo Canavese.

Una tendenza marcatamente più astratta è proposta ne La vittoria, un’opera complessa realizzata con differenti blocchi di ceramica innestati su elementi metallici, o in Liberazione, in cui torna la figura umana, appena abbozzata, nel suo protendersi verso l’alto e quindi nel tentativo di superamento, liberazione appunto, dalla gabbia in cui è inserita.

Ancora una scelta che mostra un profondo segnale di rinnovamento, ma sempre all’interno di una poetica ben distinguibile, è quella operata ne La città compressa, opera attestata anche con il titolo di Metropoli e oggi collocata nella torre del Museo Civico di Bolzano, dove è stata selezionata come "oggetto del mese" nel marzo del 2015.

Sorta di summa della poetica dell’artista, in essa ritroviamo il tema urbano caro ai futuristi, la lavorazione della ceramica per blocchi assemblati, il trattamento superficiale irregolare, la dimensione monumentale.

 


[1] Enrico Janni parla già nel 1918 di un’“invasione monumentale” sulle pagine di “Emporium”. Cfr. E. Janni, L'invasione monumentale, in “Emporium”, XLVIII, 288, dicembre 1918.

[2]Cfr. F. Fergonzi, M.T. Roberto, La scultura monumentale negli anni del fascismo : Arturo Martini e il monumento al Duca d'Aosta, Allemandi, Torino 1992.

[3]M. Ratti, La seconda ondata futurista nel Golfo. Il contributo spezzino al futurismo degli anni Trenta, in Futurismi : aeropittura aeropoesia architettura nel Golfo della Spezia, catalogo della mostra, La Spezia 8 dicembre 2007 - 24 febbraio 2008, Fondazione Cassa di Risparmio della Spezia, La Spezia 2007, pp.

[4] cfr. E. Lehmann, Le ali del potere. La propaganda aeronautica nell'Italia fascista, UTET, Torino 2010.

[5] A. Martini, La scultura lingua morta: prima raccolta di pensieri, Emiliana, Venezia 1945.

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L’articolo si basa sul lavoro di archivio, studio e catalogazione del patrimonio artistico e documentario della Fondazione Socin svolto da Giovanna Tamassia e Anna Zinelli e riprende un intervento tenuto al Museo CAMeC di La Spezia in occasione dell'incontro "Artist Focus" dedicato a Enrico Carmassi

 

Wikipedia tullia socin

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